LA CORTE DI APPELLO
    Ha deliberato la seguente ordinanza nella procedura di riparazione
 da ingiusta detenzione (artt. 314  e  315  del  c.p.p.)  promossa  da
 Potenza Aurelio, nato il 28 agosto 1934 a Foggia ivi domiciliato.
                               F A T T O
    Con   domanda   7   maggio   1990,  Potenza  Aurelio  chiedeva  la
 corresponsione da parte dello Stato della somma  di  L.  100  milioni
 quale  riparazione  per la carcerazione da lui sofferta dal 25 maggio
 al 10 ottobre 1988, nel corso del procedimento penale a  suo  carico,
 per  detenzione illegale di armi e munizioni. Da tutte le accuse egli
 era stato prosciolto dal giudice istruttore  di  Foggia,  perche'  il
 fatto non sussiste, con sentenza 12 dicembre 1989.
    Da   tale  formula  assolutoria  discenderebbe  la  ingiustezza  e
 l'immotivazione della patita detenzione.
    Data informativa della domanda al procuratore generale,  anche  al
 fine  della  eventuale  promozione  o  della  revoca  della  sentenza
 istruttoria o della azione penale, per quanto non  appariva  trattato
 nella  stessa  sentenza, questa Corte, con ordinanza 15 ottobre 1990,
 rigetta la domanda. - Tanto  sotto  il  principale  riflesso  che  il
 giudice della riparazione deve presumere e ritenere in via assoluta o
 che  il  fatto  non  sussiste,  o  che  non  e'  stato  commesso  dal
 richiedente, o che non costituisce reato o che non e' previsto  dalla
 legge  come reato - secondo l'ipotesi di cui al primo comma dell'art.
 314 del  c.p.p.  -  presupponendosi  quindi  ingiusta  la  detenzione
 eventualmente  sofferta  -  solo  nei  casi  di  proscioglimento  con
 sentenza irrevocabile, a meno che il richiedente  non  abbia  dato  o
 concorso  a  dare  causa alla sua stessa detenzione dolosamente o con
 colpa grave.
    Esclusi questi quattro casi di presunzione assoluta, questa  Corte
 riteneva  che  per l'assimilabilita', per medesimezza di condizioni a
 questi quattro casi, delle assoluzioni istruttorie (ora  tecnicamente
 definite  sentenze  di  non luogo a procedere, artt. 425 e 314, terzo
 comma,  del  c.p.p.)  con  eguale  formula  o  dei  provvedimenti  di
 archiviazione  (artt.  408  e 411 del c.p.p.), non fosse bastevole la
 formula di assoluzione della sentenza  istruttoria  di  non  luogo  a
 procedere,  e  tanto  meno  il  semplice decreto di archiviazione, ma
 fosse necessario da parte della Corte  adita  il  riesame  di  merito
 sugli  atti,  onde  stabilire la rispondenza o meno della formula (in
 caso di sentenza istruttoria o di non luogo a procedere) a una  delle
 quattro di cui alla p.p. dell'art. 314 del c.p.p., oppure (in caso di
 archiviazione)   ricorresse   uno  dei  due  casi  di  archiviazione:
 infondatezza della notizia di reato (art. 408 del c.p.p.) o fatto non
 preveduto  dalla  legge  come  reato  (art.  411  del  c.p.p.)  unici
 inquadrabili nella detta prima parte dell'art. 314 del c.p.p.
    Questa  Corte,  considerata  la  non  rispondenza della formula al
 fatto, riteneva il caso ascrivibile al secondo comma del ridetto art.
 314 del c.p.p., per cui rilevava che all'accoglimento  della  domanda
 difettava  "la decisione irrevocabile" da cui risultassero violate le
 disposizioni  sull'applicazione  o   la   perduranza   della   misura
 detentiva.  (Per  decisione  irrevocabile  la  Corte chiariva doversi
 intendere i provvedimenti di revisione  (riesame,  appello,  ricorso:
 artt.  309,  310  e 311) inoppugnabili, conclusivi ed esaustivi di un
 momento processuale incidentale e irripetibile).
    Rigettata la domanda, l'istante  ricorreva  per  Cassazione  e  la
 Corte  suprema, con sentenza 3 aprile 1991, ritenuta l'applicabilita'
 dell'istituto anche nei casi di archiviazione o di  sentenza  di  non
 luogo  a  procedere, per il disposto stesso del terzo comma dell'art.
 314  del  c.p.p.,  e,  conseguentemente,  "non  potendo  il  giudice,
 investito  della richiesta risarcitoria, procedere alla rivalutazione
 di un fatto, su cui e' intervenuta una decisione non piu' soggetta ad
 impugnazioni  ordinarie",  annullava  l'ordinanza  di  questa  Corte,
 restituendo gli atti per nuova deliberazione.
                             D I R I T T O
    Il  sistema  risarcitorio  e'  fondato  sulla  prova  presuntiva o
 effettiva della ingiusta detenzione sofferta.
    Si presume - come cennato - assolutamente ingiusta, (a meno che il
 perseguito non vi abbia dato causa o concausa per dolo o colpa grave)
 la detenzione sofferta nel corso di un  procedimento  conclusosi  con
 sentenza   irrevocabile  di  proscioglimento  perche'  il  fatto  non
 sussiste, per non aver  commesso  il  fatto,  perche'  il  fatto  non
 costituisce o non e' previsto dalla legge come reato (art. 314, primo
 comma,  del  c.p.p.).  Pare  solo  da  cennare  in proposito che, nel
 sistema,  il  proscioglimento  ha  significato  di  liberazione  solo
 giudiziale  dall'accusa (sezione prima del capo secondo, titolo terzo
 del libro settimo del c.p.p., artt. 529 e 533) e che e'  irrevocabile
 solo  la  sentenza  pronunziata  in  giudizio  contro la quale non e'
 ammessa impugnazione diversa dalla revisione (art. 648): la  sentenza
 di  non luogo a procedere non consegue la irrevocabilita', ma solo la
 esecutivita' quando non e' piu' soggetta a impugnazione (art. 650 del
 c.p.p.).
    Va  invece  documentata  la illegittimita' della stessa detenzione
 subita in qualunque altro procedimento giudizialmente concluso o  con
 sentenza  di  proscioglimento (per cause diverse ovviamente di quelle
 quattro cennate) o di condanna (art. 314, secondo comma, del c.p.p.).
    In sede di  stesura  definitiva  del  codice  di  rito  si  intese
 estendere  la  garanzia  indennitaria  anche  per  i procedimenti non
 conclusi in dibattimento, ma chiusi o con sentenza  di  non  luogo  a
 procedere o con provvedimenti di archiviazione, cosa che fu fatta con
 il  dettato  del  terzo  comma  dell'art.  314,  il quale si limita a
 prescrivere  che  le  precedenti  disposizioni  si  applicano   "alle
 medesime condizioni" per i casi non conclusi in giudizio.
    La   Corte   di   cassazione,   con   interpretazione   ovviamente
 obbligatoria per questo giudice di  rinvio,  estende  la  regola  del
 primo comma al caso di specie, dando valore letterale e assoluto alla
 formula  assolutoria  "perche'  il  fatto  non  sussiste",  usata dal
 giudice istruttore di Foggia.
    Questa Corte non ritiene potersi adeguare al significato  ed  alla
 portata  dichiarati  dalla  Corte suprema, parendo emergere dall'art.
 314, del terzo comma, del c.p.p. letteralmente interpretato,  difetto
 di legittimita' costituzionale dello stesso.
    Da  un lato, infatti, esso si appalesa foriero di regolamentazioni
 diverse per casi omogenei, ancorato come e' al  semplice  nominalismo
 delle  formule  assolutorie  usate  nelle  sentenze  di  non  luogo a
 procedere, d'altro lato punitivo  dell'unico  soggetto  indifeso  (lo
 Stato)  proprio  verso  il  quale  -  a differenza di qualsiasi altra
 persona da esso diversa - verrebbe ad essere ritenuta una presunzione
 di fatti, con conseguente  responsabilita'  risarcitoria,  che,  gia'
 precisamente  circoscritta  nel  primo  comma  a  favore di qualsiasi
 danneggiato,  e'  rigidamente  determinata  quando  essa  derivi   da
 proscioglimento,  che,  come detto, deve essere sempre pronunziato in
 sentenza a seguito di dibattimento.
    In altri termini, le preclusioni che lo Stato  pone  per  definire
 nei  limiti  del  ragionevole  e  del  giusto  le  presunzioni  della
 responsabilita'  mossale  e  che,  in  materia  di  risarcimento   da
 detenzione  ingiusta,  esso  deliberamente  ha allargato (rispetto ai
 casi ordinari di pregiudizialita' penale di cui agli articoli da  651
 a  654  del  c.p.)  nel  primo  comma dell'art. 314 del c.p.p., a suo
 stesso carico, verrebbero eliminate proprio dalla  (tardiva  rispetto
 al progetto) proposizione del terzo comma.
    Invero, equiparando, per identita' di formule, sentenze giudiziali
 a  sentenze  di  non luogo a procedere e di decreti di archiviazione,
 appare lecito domandare a quali fini e' stato richiesto  il  limitato
 proscioglimento di cui al primo comma, da sentenza giudiziale, se non
 per   determinare  il  campo  delle  presunzioni  con  le  necessarie
 preclusioni. Se cosi' e', come lo e', altra  presunzione  non  appare
 ritenibile   da   provvedimento   che  non  sia  sentenza  giudiziale
 irrevocabile, a meno che il legislatore, intendendo fare delle  altre
 eccezioni con il terzo comma, non ne spieghi anche implicitamente, ma
 comprensibilmente, le ragioni e i fini.
    Altrimenti  -  e  c'e'  da  temerlo  -  lo  Stato corre rischio di
 risarcire anche  in  casi  di  trascurata  istruzione  o  di  erronea
 pronunzia    (risarcimento    per   errore   giudiziario   favorevole
 all'imputato).
    Da    queste   considerazioni   la   Corte   vede   emergere   una
 conflittualita' di norme incomponibile: l'art. 314, terzo comma,  del
 c.p.p. contro l'autorita' (presuntiva quanto si vuole, ma rispondente
 alla necessita' di certezza del diritto) del giudicato penale, di cui
 agli  articoli  da  648  a  654 del c.p.p.; lo stesso art. 314, terzo
 comma, del c.p.p. che, per essere applicato alla lettera, rende  vane
 le  condizioni  dettate  dallo stesso primo comma. Mentre non si vede
 perche', ai fini  esclusivamente  civilistici  del  risarcimento,  la
 corte  di  appello,  unico  ed ultimo giudice di merito, non potrebbe
 rivedere  la  rispondenza  alla  realta'  dei  fatti  della   formula
 assolutoria  pronunziata  fuori  giudizio, per qualificare il caso se
 regolabile con il primo o secondo comma dell'art. 314 del c.p.p.
    Appare chiara, come impeditiva della pronunzia, la rilevanza della
 risoluzione della questione non  certo  manifestamente  infondata  di
 incostituzionalita' dell'art. 314, terzo comma, del c.p.p., il quale,
 sia come regolamentazione differente di situazioni omogenee, sia come
 privativo  di  garenzie giudiziali solo a danno dello Stato, sia come
 conflittualita' incomponibile di norme, va a toccare l'art.  3  della
 Corte  costituzionale,  ed  anche  l'art.  24,  ultimo  comma,  della
 Costituzione, come  difettosa  regolamentazione  legislativa  per  la
 riparazione degli errori giudiziari, nel senso di fare ascrivere alle
 distinte  ipotesi  risarcitorie  di  cui  al primo e al secondo comma
 dell'art. 314 del c.p.p., i casi dei soggetti nei riguardi dei  quali
 si  e'  dichiarato  non luogo a procedere senza alcuna verifica (e in
 contrasto  con  i  poteri  di  qualsiasi  altro  giudice   civile   o
 amministrativo,  impegnato  a ricercare e a stabilire il valore di un
 giudicato penale)  da  parte  del  giudice  del  risarcimento,  della
 effettiva  rispondenza della formula pronunziata ai fatti emersi, - e
 i casi di mera archiviazione, di cui pure le  ipotesi  sono  previste
 (art.  408  e  411  del  c.p.)  e  su cui nessuna verifica si dispone
 (problema  che,  sia  pure  di  sfuggita,  la  stessa  Corte  suprema
 avverte).